PIETRO DIGAETA, nato a Barletta il 25 marzo 1928 in una delle modeste case a metà strada della centralissima via Municipio (ex Strada della Corte), l’ombelico, quindi, per la sua importanza, del popolare rione “Sette rue”, ha vissuto gli anni della sua prima adolescenza assaporando la vitaminica fragranza di una sana vita rupestre, allorquando nei tardi pomeriggi delle giornate di buona stagione, mentre la propria genitrice lo vigilava assiduamente tra uno sferruzzare e l’altro di una calza o di una maglia, egli era solito, spensieratamente giocare alla “campana” (a’ campén), a “pis e pisello” (pis-e-pisell), a “nascondino” (a tifoun) o, infine al “salto in groppa” (a vullein) e, tra un gioco e l’altro, al rituale scampanellio delle pecore o delle capre che passavano per le strade del rione per la quotidiana vendita del latte, correva dalla mamma per bersi, quando lo desiderava, il suo bicchierone di latte appena munto e quindi, ancora caldo e ricco di invitante schiuma.
È con grande nostalgia che ricorda ancora quel periodo, allorquando nel tardo pomeriggio di ogni giorno era un continuo osannare alla Natura, al Creato in quello spiazzo-salotto per il continuo vociare di sciami di bambini e per lo stormire di nugoli di rondini che volteggiavano e piroettavano giulivi e festanti sullo sfondo di un cielo turchino.
Ogni giorno che si susseguiva era un’esaltante ma irripetibile pagina di leopardiana memoria. All’ “Angelus” poi accorreva dalla mamma che, unita alla nonna ed alle zie, doveva recitare la preghiera vespertina.
Si fece così più grandetto e si realizzò per lui la fortuna (grazie alla vigorosa religiosità dei propri congiunti) di accostarsi, per nutrirsi e dissetarsi, alla mensa ed alla fonte del Signore, dell’Altissimo, beandosi, così dei corroboranti frutti della fede.
Fu, quello, il periodo di apoteosi per la sua interiore vita spirituale allorquando, fanciullo di Azione Cattolica, prima e Aspirante, poi, della vicina parrocchia di S. Maria della Vittoria (S. Pasquale), esemplarmente retta dal compianto Rev. D. Antonio Marano, era una delle “voci bianche” del gruppo canoro egregiamente guidato dal Rev. D. Antonio Zanchi.
Di pari passo anche la vita scolastica dava i suoi luminosi frutti esordendo sotto la valente guida della defunta Maestra Nenna-Sporeni e compendiando il ciclo elementare sotto la brillante regia dell’eclettico ed insigne educatore, Maestro Giuseppe Mavellia, Erano, quelli, gli anni neri, gli anni bui, gli anni (1935 - 1940) in cui più di un italiano fu costretto, suo malgrado, ad arruolarsi volontario per l’Africa o per la Spagna pur di dare una sterzata al rachitico bilancio domestico.
Gli anni, in cui, molti ragazzi erano costretti a svolgere i loro compiti alla fioca luce di un lume a petrolio ed in molte famiglie matriarcali di impiegati, operai, artigiani, pescatori o contadini si era soliti recitare, nelle fredde e lunghe stagioni invernali, l’Angelus o il Santo Rosario al buio, intorno ad un braciere pigramente illuminati dal riverbero della brace o della carbonella; erano gli anni in cui gli abiti consunti: un vestito od un cappotto, per poterlo sfruttare al massimo, si era soliti farlo rivoltare dal sarto e, in taluni casi, anche rattoppare.
Erano gli anni in cui il consumo di carne costituiva il domenicale privilegio della braciola di carne di cavallo; le paste dolci in larga misura, venivano confezionate in casa solo nelle grandi ricorrenze (Pasqua, Natale e Capodanno) innaffiate dall’immancabile “rosolio”, il liquore casalingo confezionato con i vari estratti dai disparati gusti; gli anni in cui il frigorifero era sostituito da un davanzale di finestra, la lavabiancheria o la lavastoviglie da due vigorose o gracili braccia femminili e la cucina elettrica o a gas era sostituita da uno scoppiettante e minuscolo focolare in cui ardevano fascine di sarmenti o pezzi di rami o di tronchi di albero (fico, olivo, mandorlo, ecc.).
Erano, infine, anche gli anni in cui, molti giovani, pur dotati di volontà ferrea e di non comuni doti intellettive, sol perché facenti parte di un ceto già angustiato da sofferenze e privazioni di varia natura, nonostante l’esistenza di un farraginoso Patronato scolastico erano costretti, loro malgrado, dover accettare la prosecuzione degli studi in un più o meno congeniale indirizzo scolastico. Ma erano ragazzi che ardevano dal desiderio di studiare e di tutti questi erano piene le aule delle Scuole di Avviamento e degli Istituti Industriali di un tempo; Scuole di serie B, preposte ad accettare lo scarto della scuola di quell’epoca, ebbe impunemente a dire, non molto tempo fa, un . . . . . . . razzista. Ma, senza tema di smentita, sono stati quelli i tempi in cui proprio queste scuole hanno sfornato i migliori disegnatori, tecnici e matematici.